REPORTAGE Il Kosovo del commercio di auto rubate e dell'illegalità, viaggio in un 'non Stato'. Riflessioni... un anno dopo

di Maurizio Cavaliere
A distanza di un anno esatto, poco sembra essere cambiato. Il piccolo Kosovo resta un’enclave a spigoli tra il mondo virtuale e quello reale, nella quale batte un cuore di solidarietà, che succhia energie positive al volontariato e resiste senza gloria fra gli equilibri precari di un conflitto etnico-religioso così radicato che probabilmente non finirà mai.

Quello che abbiamo visto l’anno scorso di questi tempi a Gjakova, dove l’aeroporto amiKo è gestito mirabilmente dall’Aeronautica Italiana, Pec, Belo Polje, Pristina, Film City e Klina, grazie a un’apprezzabile missione umanitaria organizzata dalla Presidenza del Consiglio regionale del Molise con in testa l’ex Presidente Mario Pietracupa, e finanziata dal Ministero della Difesa, ha poco a che fare con quello che si legge ogni tanto sui giornali. D’altronde in appena tre giorni hai solo il tempo di ambientarti. Per capire bene certi meccanismi ci vorrebbero mesi, forse di anni. E allora, senza volare troppo alto come le Aquile della vicina e influente Albania, raccontiamo un po’ di sensazioni, testimonianze visive e umane che mettiamo nero su bianco per non disperderle nell’oblio di un mondo che divora e ricaccia via tutto, soprattutto le emozioni (foto spaccio frutta e verdura a Belo Polje).
Il primo flashback ci riporta a un lungo rettilineo (più di un chilometro) di auto sistemate alla meglio, quasi ammucchiate come cadaveri uno accanto all’altro. Sfilando in pulmino vediamo tanti uomini di tutte le età, anche ragazzi, girare sul margine stradale, parlare, gesticolare. Qualcuno siede in attesa, altri sono in piena trattativa. Ma trattative per cosa? Anche il meno perspicace dei viaggiatori capirebbe che si tratta di un mercato nero di auto, una sterminata concessionaria a cielo aperto (foto)

in cui dimorano i veicoli a quattro ruote, camion e mezzi agricoli compresi, che sono stati verosimilmente rubati nei vicini paesi occidentali. In gran parte macchine di grossa cilindrata, di marca tedesca, alcune delle quali arrivano dall’Italia. Ci sarà forse anche quella dell’amico che prima o poi tutti conosciamo, vittima di un furto sotto casa. Chiacchiere, targhe che vanno e che vengono, e accordi: tutto avviene in un’atmosfera di sconvolgente serenità, alla luce di un sole bello pieno pieno, come se fosse la prassi, come se quello che abbiamo sotto gli occhi, organizzato e ‘ufficiale’, fosse il commercio lecito di un rivenditore autorizzato. Non è così, e naturalmente il Kosovo non è solo questo, ci mancherebbe. Ma la scena avviene in un’area teoricacamente civilizzata, tra l’altro a poche centinaia di metri dal ‘Villaggio Italia’ dove alloggiano i nostri militari dell’Esercito che sono lì e lavorano tutti i giorni, e bene, per garantire la stabilità e il mantenimento della pace tra serbi e kosovari. Ragazzi, insomma, che non sono stati spediti tra queste montagne per ripristinare i corretti valori del vivere civile di una popolazione che, invece, nel bene e nel male, va avanti per i fatti suoi. 
  Le auto rubate vengono immatricolate nuovamente, alcune sono pronte e lucidate per le nuove destinazioni, e spesso vanno a finire non troppo lontano da dove sono state abilmente... prelevate. Altre vengono reimmesse sul mercato locale dove, soprattutto nei pressi di Mitrovica, è possibile girare tranquillamente senza targa, un po’ perché non ci sono controlli, un po’ perché una targa permetterebbe di capire se il proprietario del mezzo è di qua o di là: albanese o serbo. Meglio non farlo sapere da quelle parti. Il tratto di strada che percorriamo è poco edificante in tutti i sensi. E’ un piccolo accenno del far west che possiamo immaginare nel suo totale campo visivo più a Nord. A bordo strada si vendono anche oggetti di tutti i generi. Le armi? Di sfuggita non le vediamo, ma le cronache locali dicono ci siano anche quelle. Siamo meravigliati, ma un po’ dovevamo aspettarcelo. Qui il tasso di disoccupazione fino a poco tempo fa sfiorava il 50%, mentre le forze di Polizia annaspano e la corruzione dilaga: lo si capisce leggendo articoli e storie ben dettagliate in rete, e ascoltando il parere delle persone che interpelliamo. Commercio di auto rubate, traffico di droga e… dulcis in fundo traffico di organi del quale sono stati accusati anche i vertici dell’esercito di liberazione kosovaro (Uck), primo ministro Hasim Tachi incluso! Per di più  parliamo di un ‘non Stato’ nato nell’ambiguità, che per metà è stato riconosciuto e per metà no. La dichiarazione unilaterale di indipendenza dalla Serbia del 17 febbraio 2008 è stata un po’ come un invito a nozze corrisposto e rifiutato quasi in eguale misura tra le nazioni Onu interessate (103 sì su 193 in favore dello smarcamento dalla Serbia). Pensare che due Paesi per tanti versi simili  come Italia e Spagna hanno scelto strade diverse (noi abbiamo detto sì al Kosovo, gli iberici, evidentemente, no temendo di amplificare le pulsioni dei Paesi Baschi) nel ridisegnare la carta politica dei balcani, aiuta a comprendere la complessità della vicenda, una storia lunga, radicata e compresa nel suo insieme solo dalle due diverse etnie in eterna lotta tra loro: i serbi e i kosovaro-albanesi.

E allora che ci fa l’Onu da queste parti? Perché stanziare qui i militari delle nazioni affiliate in una zona così minuscola del mondo? Come sempre, è un gioco di finissimi equilibri politici, strategici, di pace e anche di affari, fermo restando che lo stop alla pulizia etnica messa in atto dai serbi è sembrato un atto dovuto praticamente a tutto il pianeta. Aver visto all’opera i nostri militari ci ha dato la netta sensazione di un lavoro tutt’altro che inutile. I nostri soldati hanno dimostrato fegato e professionalità, guadagnandosi la stima degli albanesi e anche la fiducia dei serbi, spesso salvati dagli assedi, come è avvenuto per il Patriarcato di Pec (foto ingresso e interno)





enclave della chiesa ortodossa serba nel cuore del Kosovo, che abbiamo visitato e apprezzato nel suo sconvolgente splendore, non per niente rientra nel Patrimonio dell’Unesco. E’ qui che abbiamo conosciuto la leggendaria Madame Dobrilla (foto),
 una donna misteriosa, affascinante, da film di Agatha Christie, dotata di un carisma allucinante e di una cultura fuori misura. Dicono sia stata vicinissima al Maresciallo Tito, ma a noi interessa soprattutto perché, indicando col bastone e con le braccia esili ma ferme, alzando spesso lo sguardo,



ci tiene con gli occhi incollati alle opere d’arte sulle pareti e sulla volta delle due Chiese che visitiamo, spiegandoci tutto degli affreschi, dell’uomo che ha perso il senso dell’amore per il prossimo, della storia e della guerra vista dalla parte dei serbi. Vita vissuta in ogni ruga del volto, maestra di storia dell’arte e teologia insieme: restiamo estasiati. Per lei i militari italiani, che pure sulla carta sono dalla parte degli albanesi, sono amici e il rispetto è totale e reciproco. La cosa ci tocca profondamente: rivela una sensibilità tipicamente italiana della quale andare fieri nel mondo, un tesoro da lucidare, esportare ed esaltare in una fase storica che vede il Belpaese perdere ripetutamente colpi, impersonato dalla leggerezza di politici oggettivamente inadeguati.

Il Kosovo non è l’Afghanistan o un Paese da sanguinosa guerra civile dell’Africa centrale: l’emergenza vera è finita da un po’. Non è la Siria di questi tempi e meno male. Ed è vero che proprio qualche giorno prima della nostra partenza, il 10 settembre 2012 per le precisione, era cessata pure la sorveglianza esercitata dal Gruppo internazionale di orientamento (Isg). Il Kosovo è soprattutto uno Stato palesemente ‘inguaiato’. E’ altrettanto chiaro infatti che la situazione non è del tutto regolarizzata e per certi versi regolare. E’ di queste ore la notizia della morte di un poliziotto della missione civile europea Eulex. E’ stato ucciso a colpi d'arma da fuoco  da uno sconosciuto nella zona Nord del paese, vicino Mitrovica, la città che segna il confine più cruento e pericoloso tra serbi e kosovari (attraverso il famigerato ponte sul fiume Ibar), per fortuna un’area piuttosto lontana da quella da noi esplorata nel 2012. Non si tratta purtroppo di un episodio isolato. Peccato, perché tutto questo avviene a due settimane (3 novembre 2013) dalle elezioni locali che vedranno in lizza la bellezza di 103 entità politiche (!) così suddivise: 33 partiti politici, 16 candidati indipendenti e 52 iniziative civiche per un totale di due coalizioni e quasi ottomila candidati. Dal voto d’autunno verranno fuori le novità politiche del futuro e, soprattutto, le nuove comunità ufficiali dei serbi, previste dall’accordo del 19 aprile scorso sulla normalizzazione dei rapporti fra Belgrado e la capitale kosovara Pristina.
Da rosso a giallo sulla mappa geopolitica mondiale e un po’ silenzioso: visto da fuori il Kosovo è questo. Ma girando per strada, come è capitato a noi, abbiamo avuto una sensazione visiva leggermente diversa, meno chiara, sfocata dal daltonismo. Al gioco dei bilanciamenti politici, necessario oltre che efficace, si accompagna la carica economica dei Paesi occidentali, quasi tutti interessati con le loro grosse aziende da programmi di espansione nella fase più delicata: quella dello sviluppo di un paese incredibilmente povero, un paese a vocazione agricola che negli ultimi anni ha perso l’identità e con essa l’abitudine a rapportarsi con le proprie risorse. Anche l’Italia ha i suoi piccoli interessi in Kosovo, ma il grosso lo stanno facendo altre nazioni, in particolare gli Stati Uniti (che nel 1999 sotto la Presidenza Clinton cambiarono improvvisamente la loro posizione sulla vicenda: da antagonisti del Kosovo a partner) e la Svizzera che ha stretto un sodalizio indissolubile con il Paese dalla bandiera blu e oro a sei stelle. Nuove infrastrutture, investimenti e soldi: il mantenimento della pace comporta pure questo che ci piaccia o no. E i civili che dicono? E la popolazione locale come sbarca il lunario? Quali sono i rapporti tra le amministrazioni e le società che gestiscono la ricostruzione? E fino a dove si percepisce il clima di diffusa impunità? Sono queste le domande che ci hanno accompagnato in giro per il Kosovo centro meridionale. Sarebbe stato interessante andare più a fondo, ma in poco meno di tre giorni abbiamo avuto solo il tempo di guardarci intorno e vedere un paesaggio che sembra molto quello dei filmati d’epoca nei paesini del Sud Italia periodo post seconda guerra mondiale, ovvero povertà allarmante, abbandono e caos. Con l’aggiunta di un conflitto tra due etnie che dura da secoli, che è radicato nel profondo delle abitudini di questa gente, che nasce tra i banchi di scuola alimentato spesso dalle famiglie d’origine. Sono cose loro, insomma. Ed è per questo che quando siamo andati via, a conclusione di un’interessante esperienza - e dopo aver appreso che i bambini albanesi a Nord di Mitrovica vanno a curarsi negli ospedali serbi, forse perché sono gli unici esistenti o forse perché la guerra tra fratelli viene gestita in qualche modo secondo un codice particolare, comprensibile solo a chi qui ci vive da sempre - abbiamo avuto una stranissima sensazione, molto sottile, molto umana: che, dopo quasi quindici anni, alcuni degli uomini degli stessi Paesi coinvolti nel ripristino e mantenimento della pace, non hanno ancora capito se sono intervenuti dalla parte giusta o da quella del torto…       (prima parte)


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