TESTIMONIANZE L'incubo del rientro da Luton, emozioni e pensieri sinistri dall'aeroporto londinese sprofondato nel caos
di Maurizio Cavaliere
(pubblicato sul quotidiano Nuovo Molise l'11 agosto 2006)
Quando, dopo tre ore di sinistra attesa, spogliati di ogni
cosa, lo steward alto, biondo e impettito, della Ryanair ha esclamato con preoccupazione
che a bordo dell’aereo c’era una grossa valigia nera incustodita, ho capito
con certezza che il «Luton-Roma» sul quale mi ero appena imbarcato, non era un
volo per così dire...
fortunato. Quel «there’s a big black bag with no identification» suonava come l’allerta di massimo grado, quella definitiva, nel mezzo di una mattina di agosto vissuta già troppo intensamente.
fortunato. Quel «there’s a big black bag with no identification» suonava come l’allerta di massimo grado, quella definitiva, nel mezzo di una mattina di agosto vissuta già troppo intensamente.
Sono
arrivato all’aeroporto di Luton all’una di notte. Con me la
mia ragazza, Mariapia. Insieme di ritorno a Campobasso dopo nove giorni di
vacanza tra Londra e dintorni.
Le sei ore e dieci minuti che ci separano dal rientro
a Ciampino sono una garanzia di tranquillità e di sonno
non indifferente. Alle 4, però, in coincidenza con l’apertura dei check in,
qualcosa turba la quiete del
terminal. I primi controlli si svolgono nella più totale incertezza. Non una
notizia sicura, solo un sottofondo di profondo disagio. L’unico input per noi
disorientati viaggiatori arriva direttamente dal personale al desk. Per tutti
un laconico: «A causa di nuove operazioni di sicurezza contro il terrorismo tutti
i passeggeri se si imbarcano a Londra devono viaggiare senza alcun tipo di bene
od oggetto con sé». In buona sostanza, senza avere neanche la possibilità di
avvertire parenti o amici veniamo invitati tutti a infilare
alla bella e meglio i bagagli a mano nelle altre valigie, compresi cellulari, acqua,
cibo e medicinali (liquidi).
A bordo
tutto è bandito. L’ammasso di valigie e borsoni viene minuziosamente esaminato
dalla polizia inglese. E non si può discutere: così é stato deciso, chi non si
adegua rischia grosso. Dopo un paio di tentativi l’evidenza è tale che anche togliersi
scarpe, calze e altri indumenti diventa normale. Finisse qui
ci metteremmo la firma.
La «botta»
arriva poco più tardi, direttamente dai piccoli schermi disseminati lungo il
percorso del terminal.
Le breaking news, come dicono da queste parti, rompono il
clima di incertezza e, in pochi
secondi, matura il sospetto che qualcosa di grave sia successa a queste latitudini
o poco distante. La prima
reazione della maggior parte è quella di non sentire, di tapparsi le orecchie,
e aspettare con pazienza e speranza il segnale che indirizza all’imbarco.
Ci avviamo
uno dopo l’altro come «imbalsamati», traditi da una realtà cruda e fredda ma
difficile da mettere
a fuoco.
Davanti a noi l’aereo è fermo, imponente ma anche fragile. Non so se essere più
felice di veder terminata un’attesa lunga tre ore o preoccupato per quello che
può ancora succedere.
La risposta
me la dà un ragazzo cinese che, tranquillo e beato, se ne sta in fila col cellulare
in bella mostra
a conversare
con chissà chi, certamente non un terrorista. Come abbia
fatto a eludere i rigidissimi controlli lo sa solo lui. Di sicuro, mentre gli
agenti gli «sequestano» il
cellulare, la situazione mi appare più fluida.
Sono ai
piedi della scaletta. L’aereo, la tensione delle grandi valigie nere incustodite
mi aspettano.
Tornare
indietro? Non è possibile. Meglio salire e chiudere gli occhi.
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