TRADIZIONI Zia Concetta a stelle e strisce: tacchino alla 'campuasciana' per il giorno del ringraziamento

di Maurizio Cavaliere
Chiariamo subito che qui le notizie sono due: un gruppo di americani che festeggia il Giorno del ringraziamento da ‘zia Concetta’, mangiando il tradizionale tacchino (ma cucinato alla… campuasciana); e uno di loro, Peter Farina, imprenditore 29enne, i cui trisavoli partirono da Guardiageria, che dal 2006 gira l’Italia accompagnando turisti americani alla ricerca dei parenti perduti tra i rami di un albero genealogico con solide radici nel Bel Paese.
Conosciamo la simpatica compagnia tra i tavoli della storica trattoria di via Larino a Campobasso. Cosa ci fanno cinque americani a cena l’ultimo giovedì di novembre? Risposta facile: onorano il thanksgiving day, of course. Vivono insieme una delle feste di origine cristiana più sentite dal popolo Usa. E’ lo stesso Peter a spiegarci  con i fatti quanto spazio occupi questa tradizione nel cuore e nelle abitudini degli americani: ‘Pensa – ci dice in un discreto italiano – che il 'thanksgiving' fa tornare a casa più gente di quanto non avvenga per Natale’. In effetti nel ‘ringraziamento’ non c’è solo il senso religioso del donare il proprio cibo – il tacchino ‘sacrificale’  e altro - anche ai vicini e alle persone meno fortunate, ma c’è soprattutto la voglia di celebrare una ricorrenza che è americana al 100 per cento, dunque non un derivato euroafrosiatico come tante altre feste in cui lo spirito dell’evento religioso sposa la forma più autentica di aggregazione: lo stare a tavola. E’ così dal lontano 1777, da quando, in piena Guerra di indipendenza, il Congresso delle colonie ribelli alla Corona d’Inghilterra fece una prima proclamazione nazionale di quella che era una tradizione consolidata già dal secolo prima. Attraverso i successivi proclami di George Washington, John Adams e James Madison si arrivò a quello di Abramo Lincoln, passato evidentemente alla storia anche per essere stato il Presidente americano che ha inquadrato il ‘thanksgiving day’ nel calendario, alla data che ancora oggi viene ufficialmente riconosciuta: il quarto giovedì di novembre. Era il 1863, tutto più o meno come oggi, a parte la successiva decisione del Congresso degli Stati Uniti che, nel 1941, decise di istituzionalizzare la ricorrenza proclamando ‘il giorno del ringraziamento’ come festa legale. Se non si fosse ancora capito, il tacchino di fine autunno profuma di sacrificio e di emancipazione per gli... americans.

L’orologio della trattoria segna le otto di sera, quindi negli States sono le due del pomeriggio. Dall’altra parte dell’Atlantico, gli statunitensi sono tutti a pranzo per il ‘ringraziamento’ e i nostri amici di banchetto vogliono festeggiare in contemporanea. Quindi, insieme alle altre pietanze, zucca e intingoli vari, sulla tavola giá bella che imbandita arriva pure il tacchino preparato all’americano-campuasciana maniera da Lucia, figlia d’arte in cucina. Ed è un bel vedere, non c’è dubbio. Il sospirato compimento del rito, pure sulla sponda molisana dove la ricerca del 'turkey' è stata più complicata della sua preparazione (pare che zia Concetta abbia messo a soqquadro un’intera regione pur di accontentare i suoi distinti ospiti americani). Peter è felice, si sente a casa anche perché, seduti con lui, ci sono alcuni suoi amici provenienti da New York, Boston e Houston e la sua amata che è di Napoli: “Per noi è una serata importante – dice - siamo contenti di aver trovato quello che cercavamo. E’ la prima volta che in questo ristorante si prepara il tacchino per il ‘thanksgiving day’. Un onore per noi, che bello il Molise”.

L’atmosfera si carica di suggestioni, i colori pastello di una tavolata sobria, come si conviene a un convivio in cui il senso di devozione all’Onnipotente per il raccolto, in questo caso il cibo in tavola, si mischia bene agli ampi sorrisi made in Usa. Questa è una festa americana, quindi, nonostante il cordiale invito ricevuto, lasciamo Peter e gli altri alla loro serata stelle, strisce e… quadretti (del tipico mantile da osteria italiana) coperti dalla carta velata.

Con Peter ci eravamo intrattenuti anche prima di cena. Ci incuriosiva il suo incredibile mestiere. Ed ecco la seconda notizia: Peter è un imprenditore di ‘cultural heritage’, cioè promuove il territorio italiano e il turismo attraverso vere e proprie ‘carrambate’ che Raffaella Carrà al confronto è una dilettante del ramo. “Amo il Molise più di ogni altra regione italiana e non solo perché le mie origini sono matesine – ci ha detto – I miei avi da parte materna erano di Guardiaregia e io ho sempre sentito forte il richiamo alle radici. Così, nel 2006, ho messo in piedi la mia ItalyMondo, una società che lavora per trovare i parenti perduti negli anni e nei secoli, di tanti americani con patrimonio genetico italiano. Funziona in questo modo: noi proponiamo un pacchetto con ricerca nell’albero genealogico e negli archivi di riferimento, volo e vacanza nel luogo delle origini, comprese visite guidate nei siti di interesse, per esempio scavi, località e altre bellezze paesaggistiche. Più importante ancora è l’incontro che i nostri ospiti fanno con i lontanissimi parenti sconosciuti, persone che neanche loro erano più convinti di trovare. E’ un’esperienza totalizzante e carica di pathos”.
Qual è stata quella più emozionante finora? ”Ci sono stati due viaggi, uno a Torrice, in Ciociaria, l’altro a Briano, frazione di Caserta, in cui ho pianto tanto anch’io per l’emozione. Vedere famiglie legate allo stesso filo ereditario riunirsi dopo secoli è qualcosa di straordinario”.

Negli Stati Uniti la ‘cultural heritage’ va parecchio di moda, giusto? “Sì, è qualcosa di molto sentito. E’ vero che noi siamo super patriottici, guarda per esempio come festeggiamo il ‘thanksgiving' questa sera - e indica il tacchino – ma è vero pure che quasi tutti gli americani conservano fortissimi legami con le radici. Se tu vieni da noi e chiedi alla prima persona che incontri ‘What are you?’, beh, la risposta non sarà ‘I’m american’, bensì ‘I’m Irish’, ‘I’m italian’ e via dicendo. Capisci cosa intendo?”.
E l’Italia come accoglie la vostra missione? “Bene, anzi benissimo. Ho girato diciannove regioni su venti finora e sono stato bene dappertutto. Devo dire, però, che l’ospitalità molisana è di molto superiore alla media. Per questo – ha concluso - siamo spesso a queste latitudini. Prossimamente saremo a Jelsi”. Detto da uno che aveva gli avi ben radicati sulle prime alture del Matese suona un po’ di parte. Ma va bene così, incassiamo quest’altro punto a favore e chiudiamo la chiacchierata. Anche perché il tacchino (ma non i cuori) rischia di freddarsi.  

Pubblicato il 28 novembre
su http://www.primonumero.it/attualita/primopiano/articolo.php?id=15410

 

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