La nuova vita di Simon Wolstencroft, guerriero funky tra i giganti del rock


Il primo batterista degli Smiths, pre Stone Roses e 10 anni nei mitici Fall oggi suona con i SAN PEDRO COLLECTIVE. La sua storia, il suo viaggio musicale senza compromessi.

dI Maurizio Cavaliere

Questa è una storia di snodi fatidici e perseveranza. Un’esperienza di nicchia, forse di culto, vissuta appieno nella monotonia dell’area urbana di Manchester: quando le coincidenze fanno gli eventi, plasmano i rapporti, alcuni fortunati, altri compromessi da divergenze insanabili e prematuri addii.

Questa è la storia di un batterista, Simon Wolstencroft, e di una sera di quarant’anni fa in un piccolo pub, The Vine, al 133 di Washway Road, Sale, Trafford. 

Manchester è una città che, quando vuole, sa dettare le condizioni e calibrare gli umori artistici e giovanili. L’ormai nutrita letteratura racconta gli aneddoti più significativi e i leggendari eventi che hanno segnato la rinascita culturale della città tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Novanta. Fu così quando il 4 giugno del 1976, alla Lesser Free Trade Hall, i Sex Pistols ’iniziarono’ un manipolo di appassionati e future stelle, spazzando via il grigiore dal cielo e dalla strada, per porre le fondamenta di punk, post punk, new wave, della mitica Factory di Tony Wilson e di un’intera galassia di fuoriclasse, Joy Division compresi. O quando sul finire degli Ottanta, i due Gallagher videro suonare gli Stone Roses alla Fac 51 Hacienda e altrove, decidendo all’istante di calcarne le orme (Liam non è che una copia più vendibile di Ian Brown, perfino nella camminata) facendo magistrale razzia di quanto piantato da John Squire e soci, gli originali, troppo avanti per quei tempi.

Qui, invece, vi parlerò di un altro momento essenziale, certamente meno noto, tuttavia seminale perché incarna i prodromi di un’evoluzione musicale con pochi eguali. È come riavvolgere un vecchio nastro trovato in soffitta, quella musicassetta evocativa dei tuoi giorni migliori, il profumo della prima cotta.

La musica è come la storia: i re si avvicendano sul trono, mentre altri si accontentano (si fa per dire) di capovolgere il mondo, di renderlo migliore. Quel giorno del 1980 al Vine (qui in foto) c’erano almeno tre di questi rivoluzionari dell’indie rock, tutti insieme, legati da un destino comune: scrivere pagine di epica underground.

È la sera in cui al già citato Simon Wolstencroft (batterista con la punk band The Patrol, messa su tempo prima con i compagni di scuola Ian Brown, il secondo dei ‘nostri’ al Vine, e John Squire) viene presentato un chitarrista che suona da Dio. Si chiama John Maher, ma è conosciuto come Johnny Marr, perché il ragazzo ha le idee chiare: sa che di John Maher, a Manchester, c’è già uno dei ben noti Buzzcocks.

Marr cerca un batterista per la sua band in cantiere nella quale suona il basso un altro coetaneo della zona: Andy Rourke. Simon accetta la sfida che si concretizza in un nuovo gruppo orientato al funky, i Freak Party. Suoneranno per più di un anno – cercando un cantante – eccone la testimonianza rivisitata.

Wolstencroft non può sapere che verso la fine di quell’avventura Marr gli presenterà un giovane dall’aspetto singolare, timido fino alla paralisi, all’epoca dei fatti, aspirante popstar, tale Steven Patrick Morrissey, una fugace apparizione con Slaughter and the Dogs, che proporrà come cantante della band. Senza tanti giri di parole, a conclusione di quel primo incontro nei Decibelle Studios (qui la storica version di “Suffer Little Children” gli Smitfh al debutto), il batterista si tira fuori.

A non convincerlo sono la voce e il suono della neonata band. Troppo facile oggi bollare la sua decisione come l’errore del secolo, la verità è che uno come lui, in fissa con i Clash e piacevolmente immerso nei meandri di 2 tone, jazz funk e nella contro-cultura freak di Funkadelic e Parliament, farsi piacere Morrissey con i suoi macabri brontolii e testi deprimenti non è affatto scontato. 

Non una grande fortuna per Funky Si (così soprannominato da Marr) visto il successone, anche commerciale, che gli Smiths otterranno in breve tempo, ma una decisa virata a un approccio artistico più sofferto che gli procurerà l’intrepida chance che solo uno come lui, eclettico e pronto, può raccogliere al volo: 11 anni con The Fall, al servizio della dirompente, sagace poetica di un personaggio imprevedibile: il leggendario Mark E. Smith.

Da Smiths a Smith non è solo uno scherzo linguistico, Simon Wolstencroft è nato proprio per essere lì, sotto quella lettera S, che viene e che va, all’incrocio di due o tre storie meravigliose, missionario fedele di un rito, guerriero indomito oltre i singhiozzi dell’anima. Sarebbe stato così con Marr e Morrissey, è stato così con The Fall. Due band totalizzanti, ‘All or nothing’ cantava il mio idolo Steve Marriott.

Quella sera a Manchester si  toccarono insomma gli embrioni di Stone Roses e Smiths e una futura costola dei Fall, per differenti aspetti forse le band più influenti e importanti nella storia cittadina.

Il primo contatto con Funky Si è avvenuto via Facebook, stimolato dalla lettura del suo memoir You Can Drum but You Can’t Hide (Route Publishing 2014) poi podcast senza peli sulla lingua, ben alimentato da massicce dosi di umorismo. 

Ci siamo avvicinati alla storia di un musicista formato dalla vita, oggi saggio e pure felice, nonostante non abbia sfondato sul piano economico. Una grande storia, che il lettore troverà d’ispirazione perché parliamo di un uomo andato dritto per la sua strada, rimboccandosi le maniche (ha fatto diversi lavori) senza mai compromettere la vena artistica, lottando a lungo con i fantasmi di quell’occasione persa con gli Smiths e della dipendenza da fumo (di eroina) che ne scaturì.

Qui la sua fugace e interessante esperienza con The Weeds (1986), insieme al cantante e chitarrista Andrew Berry (barbiere suo, di Marr e Morrissey, ah, quel bel ciuffone che ha profilato un’epoca…), Carrie Lawson e al bassista Niko Arrojo, anche lui parrucchiere di successo delle celebrità.

Ma abbiamo letto pure della ‘scappatella’ precedente (febbraio 1984) con i Colourfield di Terry Hall (cantante e fondatore degli Specials, suo idolo solo qualche anno prima), qui la sua prima volta live in Tv (The Tube)                                                                              

E poi ci sono i suoi viaggi, le collaborazioni con amici musicisti e nuovi gruppi da guidare in un mondo tecnologico-mediatico capovolto rispetto al passato, che tuttavia il musicista mancuniano affronta con l’entusiasmo e i riflessi del batterista navigato. E’ un lungo percorso che lo vede sperimentare ambienti e suoni, con G.O.D, Lyla e altre band, fino all’ingresso nei San Pedro Collective, collettivo appunto cui contribuiscono diversi musicisti, alcuni giovani, altri della sua prolifica generazione come lo stesso fondatore Rikki Turner, ex Paris Angels (ricordo con piacere il pezzo ‘Fade’ grandi atmosfere e ritmo).

Ci aveva promesso un’intervista ovvero una piacevole chiacchierata tra presente, futuro e frizzante incursione nel suo glorioso passato di protagonista e collante di esperienze musicali anticonvenzionali, essenza della scena underground di rango supremo.

Ed eccola qua, pronta come Simon. Per un’occasione importante perché c’è della nuova musica di cui parlare.

Buongiorno Simon, sei alla tua ennesima grande sfida artistica. ’Time’ (Blindside records) è un grande ‘pezzo’, soffice, atmosferico, autenticamente funky. Cosa significa per te questa nuova avventura con i San Pedro Collective? Già, è una nuova avventura. Sono stato impegnato con diverse band fino a quando, un paio di anni fa, l’ex cantante dei Paris Angels, Rikki Turner, mi ha chiesto di unirmi ai SPC. Sebbene non fossi un fan dei Paris Angels, ho pensato che lui avesse una voce sorprendente, quindi gli ho chiesto se la nuova band fosse orientata al funky. Mi ha risposto di sì, e tanto è stato sufficiente per accettare la sua proposta e unirmi a loro. Esprimermi con i SPC (qui sotto nella foto di Paul Husband) è molto importante per me, specialmente adesso. Ho sempre suonato e mi sento fortunato ad avere ancora l’opportunità di essere in un gruppo che mi piace, dopo tutti questi anni. Per di più, ho tanto da dire nella direzione di un sound costruito collettivamente, piuttosto che dover sentire da altri cosa suonare e quando”.

Qual è il ruolo di Simon Wolstencroft nei SPC, a parte il notevole apporto d’esperienza? “Insieme a Rikki mi piace vedere me stesso non solo come un musicista, ma più come un regista del sound, decidendo in che modo il suono della band dovrebbe svilupparsi. Nei primi due singoli ‘The Things You See’ e ‘Where Do I Begin’, Il suono dipendeva dall’utilizzo di molti campionamenti, per gentile concessione del remixer Suddi Raval, che con ‘Hardcore Uproar’  ebbe un grande successo di Ibiza House nel 1990. Con i nuovi pezzi dei ‘San Padro’ volevo che i veri musicisti avessero il loro spazio per esprimersi (me compreso). Poi, sono stato io a portare Jasmine Needham, la nostra cantante, nella band, dopo averla incontrata a un’audizione per una tribute band degli Smiths, più o meno di questi tempi l’anno scorso”.

Il modo di fare musica e di distribuirla è cambiato tanto dai tuoi esordi. Quanto ti manca quel mondo? E cosa c’è di buono in quello di oggi? “Hai ragione, fare e distribuire musica è cambiato per sempre. Oggi è comunemente accettato dalle nuove band che i soldi reali possano essere fatti solo suonando regolarmente concerti (a meno che tu non sia già un gruppo affermato) che, come sai, nel clima di oggi è impossibile. Questa situazione fa davvero schifo così come il fatto che il Regno Unito sia uscito dall’Unione Europea. Infatti, quando a un certo punto i tour ripartiranno, i musicisti dovranno acquistare i visti per poter andare in Europa continentale a fare un tour, cosa che escluderà le nuove band dal gioco. Il lato positivo è che lavorare e condividere file musicali su Internet era impensabile quando ho iniziato negli anni Ottanta. Almeno i San Pedro Collective sono stati in grado di provare insieme tra i vari lockdown e registrare il nuovo singolo ‘Time’ e un paio di altre tracce che usciranno quest’anno. Se non avessimo passato del tempo a suonare effettivamente insieme l’anno scorso – confessa Simon – io per primo sarei impazzito”.

Hai creato un modo tutto tuo per promuovere quello che fai. Oltre all’autobiografia ci sono i tuoi brevi video su youtube e facebook che sono una manna dal cielo per i cacciatori di simboli e aneddoti. Sono spontanei, leggeri, incisivi. Ma la specialità della casa è il podcast ‘Funky Si’s A to Z of Manchester’ in cui ti riveli in tutta la tua cordialità e simpatia tipicamente inglesi. E un corredo di storie di tutte le band con cui hai lavorato. Com’è nata quest’ultima idea? 

“Dunque, la conduttrice e ideatrice del podcast Jackie O’Malley aveva interpretato una suora, a Londra, nella commedia del 1986 Hey Luciani (da cui il brano celebre dei Fall, ndr, vedi video in basso), scritta da Mark E. Smith dopo aver letto il saggio di David Yallops ‘In God’s name’ sulla morte improvvista e discussa di Papa Albino Luciani, Giovanni Paolo I. Oltre ad essere nella band, io ho detto anche alcune battute nella commedia. Interpretavo un cardinale corrotto in Vaticano. E’ successo subito dopo il mio ingresso nei Fall. Poi, un anno fa, dopo tanto tempo, mi sono imbattuto per caso in Jackie, che lavorava in una stazione radio a Manchester. Così, durante il primo lockdown a marzo, lei mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto fare un podcast. E’ nato tutto così, ora vogliamo fare la serie 2, naturalmente non appena potremo”.

 

Hai vissuto i primi Stone Roses, i primi Smiths e sei stato parte integrante di una decade felice dei Fall. Oggi prevale l’orgoglio di essere stato al centro dell’universo indipendente e sono apprezzabili le cose che questi amici e artisti dicono di te. Perfino due personaggi molto particolari come Morrissey (il quale ha detto che ti avrebbe voluto negli Smiths) e Mark E.Smith (che ha firmato il tuo primo contratto su un pacchetto di sigarette) sono stati gentili con te. Qualche giorno fa è stato il tuo compleanno e tutti hanno avuto un pensiero carino, per te. Il grande fotografo di Manchester Paul Husband ha scritto sulla tua bacheca facebook, a corredo di una bella foto: “Happy birthday Funky Si! Top drummer. Top human’. Quanto ha inciso il tuo forte spirito per la causa comune nella tua vicenda musicale?

“Beh, sono quel tipo di persona che si può considerare ‘felice e fortunata’. Posso andare d’accordo facilmente con la maggior parte delle persone in qualsiasi ambito della vita, quindi penso che questo mi abbia sicuramente aiutato nella mia carriera di batterista, ho sicuramente avuto anche molta fortuna, essendo nel posto giusto al momento giusto. Come dico nel mio libro, non sono il miglior batterista al mondo e molti colleghi che sono tecnicamente superiori a me non vanno mai oltre i concerti nei bar con le cover band. La musica è la migliore droga di tutte e continuerò a sorridere e continuare finché la mia salute lo permetterà”.

Sei un amante dell’Italia, pochi mesi fa hai visitato Bari. La tua prima volta da noi è stata a un Sanremo rock negli anni ‘80 con i Fall. Che ricordi hai di quei giorni?

“Adoro l’Italia. Mark E Smith mi ha raccontato della passione delle persone, del cibo e vino meravigliosi e della moda che è molto importante per me. Sono stato tante volte da voi e non appena potremo, con la mia compagna Lou Lou, verremo a visitare ancora una volta il vostro bel Paese. Riguardo a quei giorni, ero da poco nei Fall ed eravamo prenotati per suonare al Festival di San Remo, filmato da una grande compagnia televisiva. Tutto si è svolto in un grand hotel sopra la baia, davvero emozionante ed esotico. Abbiamo suonato su un palco circolare rotante e quando è stato il nostro grande momento il motore che girava il palco si è rotto ed eravamo tutti fuori campo, quindi guardavamo verso la direzione sbagliata. Alcuni di noi hanno visto il lato divertente della faccenda, questa è la TV dal vivo per voi! Così sembrava”.

Cosa manca a te e cosa manca a questo mondo di Mark E. Smith? Senti di portare avanti quella missione? 

Mark è stato davvero un personaggio unico, non ci sarà mai più nessuno come lui nella musica, il che è una buona cosa e negli anni a venire la gente guarderà indietro a lui e ai suoi testi con affetto.

Le nuove band che nascono e sono instabili e imprevedibili non vengono più chiamate a suonare in televisione, il che è un peccato. Penso che il catalogo di lavori di Mark dovrebbe essere lasciato a disposizione delle nuove generazioni che avrebbero tanto da scoprire”.

Torniamo a Manchester. Sei amico di John Squire e Ian Brown da quando eravate poco più che bambini. Come hai vissuto quei lunghi anni in cui i rapporti tra i due si sono drammaticamente interrotti?

“C’erano diversi attriti nella band dopo il grande successo dei Roses della prima ondata. Per lo più scontri di personalità.

Ian ha deciso di andare avanti per la sua strada, con lavori da solista ed è così che mi ha chiesto di unirmi alla band per il suo secondo album ‘Golden Greats’ nel 1999. Per un po ‘è stato fantastico essere di nuovo nella band dei miei compagni di scuola. Entrambi abbiamo iniziato con la musica insieme a John Squire nella nostra punk band The Patrol, quindi ci è sembrato di essere tornati al punto di partenza.

Certo, lavorare di nuovo con Ian è stato completamente diverso dall’essere nella band con Mark E Smith. Ian è molto professionale e non lascia nulla al caso, non così divertente come nei Fall, non una cosa per me, comunque”.

Una volta Mick Jones ha detto a un mio caro amico di Leicester: I Clash non si riformeranno perché altrimenti tutto quello che abbiamo fatto e detto non avrebbe (avuto) senso. Come giudichi la riunione dei mitici Stone Roses, felice o deluso? “E’ stata proprio una grande sorpresa quando i Roses si sono riformati. Inizialmente è stato Ian a dare il via alle operazioni. Aveva davvero intenzione di registrare un terzo album con la band.

Le circostanze e le storie delle persone cambiano. Quindi, dopo il picco iniziale con le esibizioni sui grandi palchi, parte della band aveva perso ‘la fame’ perché erano tutti molto più grandi d’età a quel punto. Hanno pubblicato un paio di nuove tracce ma il desiderio di fare di più è stato perso. Tuttavia, hanno meritatamente guadagnato un sacco di soldi per fronteggiare i loro guai”.

A proposito dei Clash, erano tra i tuoi idoli. Li hai seguiti da fan in tutta l’Inghilterra. Una band straordinariamente viva ed eclettica. Cosa ti hanno lasciato? Sono stati loro i migliori o tra i migliori della storia? “I Clash hanno avuto un’enorme influenza sulla mia vita. Quando abbiamo fondato la nostra band, i Patrol, a scuola, è stato tutto modellato su di loro con titoli di canzoni come ‘Jail of the assassins’ per esempio. Ian prediligeva i Sex Pistols, ma John Squire e io eravamo ossessionati da loro: è così che siamo finiti in una band per tutta la vita.

Quando completai gli studi, li seguii in tutto il Paese tra il 1979 e il 1980. Non me ne pento e ho accettato le loro opinioni politiche: sono stati una delle migliori band dal vivo che abbia mai visto”.

Hai suonato con tanti musicisti e fuoriclasse, ne citiamo uno su tutti, il grande Johnny Marr. “Johnny è il miglior chitarrista della mia generazione.

Era così decisamente ottimista e ambizioso quando lo incontrai per la prima volta e mi chiese di unirmi al suo nuovo gruppo, Freak Party, che non sono rimasto sorpreso quando è diventato una grande pop star negli Smiths. Ha uno stile così unico che lo fa risaltare rispetto a tutti gli altri”.

Marr, Brown e Smith sono cresciuti in un’epoca di grande evoluzione della musica. Come te, hanno assimilato la gioia del funky e assorbito la rozzezza del punk. E poi sono andati oltre. Anche grazie a loro il post punk ha scardinato i cliché del rock. Tu che hai vissuto in pieno quegli anni, pensi che quella fase di avanguardia e di rottura col passato sia stata il momento di maggiore slancio della musica rock?

“Sì, mi sento fortunato ad essere stato un ragazzo degli anni Settanta. Così tanti stili che andavano e venivano durante quelli anni: Glam, Punk, British Funk, New Romantic, Ska, Two Tone, Indie and House music. E’ da un po’ che aspetto che emerga un nuovo genere”.

Con Stella Grundy, ex Instastella, hai recitato nel video di ‘Say’ brano profondo e delicato di Tim Burgess e Peter Gordon (qui sotto il video) Come è nata questa cosa? Mio cugino Nico Mirallegro è un attore. Tim Burgess dei Charlatans gli ha chiesto di dirigere il video per questa canzone ‘Say’. È stato Nico a chiedere a Stella e a me di recitare nel video che è basato su una coppia un po’ oppressa che vive insieme e che non ha più niente da ‘dirsi’. L’abbiamo girato in uno squallido appartamento nel nord di Londra”.

Qui il video https://youtu.be/XHOIeR86MuI 

Bene, siamo alla fine, Simon. Torniamo al punto di partenza. Time è il titolo del terzo singolo dei San Pedro Collective. E’ uscito il 23 gennaio, recensioni molto positive, un ritorno con stile il tuo, un inno a quello che c’è ancora da fare. ‘This is the beginning of a new sound’ dice la prima strofa. Il brano è stato elaborato e scritto tra un lockdown e l’altro. Quanto ha influito questo stato d’incertezza sul mood del brano, molto soft e profondo, e ben sostenuto dal canto di Jasmine Needham?

“Il pezzo è uscito adesso in pieno inverno, ma lo abbiamo registrato in estate a Salford dopo la fine del primo lockdown qui in Inghilterra. In realtà suona come una melodia estiva, ma poiché l’anno scorso è stato un anno senza precedenti con questa drammatica pandemia, abbiamo pensato, perché non ora?

È una canzone così fantastica e rilassante che per me non ha alcun signficato quando esce. Jasmine è semplicemente fantastica. Al provino in cui stavamo cercando una Morrissey al femminile, abbiamo provato una dozzina di ragazze diverse senza alcun risultato, la maggior parte era in lotta con la tonalità della vera voce di Morrissey, fino a quando l’ultima ragazza, Jasmine, è arrivata con tanta sicurezza e quel sorriso. Così ho deciso di prendere Jasmine e portarla con me nei San Pedro Collective, ed è così che ho capito che non volevo essere in una tribute band”.

No, non lo vediamo Simon Wolstencroft in una tribute band. Il miglior finale merita almeno un bis. Salutiamo così ‘Funky Si’ l’uomo che ha visto da vicino il diritto e il rovescio della medaglia, la personificazione di una massima a noi tanto cara, questa: quando trovi qualcuno che crede in te, tienitelo stretto e vai avanti per la tua strada.

Alziamo con lui una pinta immaginaria. Alle virtù del rock e dell’arte, Simon! Ci pare di rivedere la scena al vecchio Vine, quella sera d’inverno, quando i 17enni Simon Wolstencroft, Ian Brown e John Maher, detto Johnny Marr, devono aver fatto lo stesso gesto: su i bicchieri, ragazzi, brindiamo al futuro. Ebbene, in modi e tempi diversi, quel futuro sarà tutto loro, come la vita in un sogno, il funky, il tempo: Time, il nuovo singolo dei San Pedro Collective di Simon Wolstencroft non poteva che chiamarsi così. Grazie Simon, still funky (Si) after all these years. 

San Pedro Collective ‘Time’ Blindside Records 23 gennaio 2021

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