Rivedere i Sopravvissuti in tempi di quarantena, quella serie tv profetica e il 'terrore' degli anni 70


di Maurizio Cavaliere

Gli anni Settanta sono un ricordo fumé per uno che è nato ‘solo’ nel 1972. Poche storie limpide, tanti fotogrammi, per lo più atmosfere fosche, i tg che aprono con le Brigate Rosse e Lotta continua.Tutto questo lo ricordo, certo, così come rivivo i giorni in cui neanche la tv a colori levava la patina grigia dai vili attentati di mafia e via Fani.
Greg,Jenny e Abby nella prima serie

Non per niente saranno per sempre gli anni di piombo o quelli della
guerra fredda. Metallo pesante e gelo nelle menti e nei corpi sono
metafore perfette di quei tempi, componenti essenziali dei rapporti
umani e delle schermaglie politiche di allora. Ideali macchiati di
sangue o utopie nevrasteniche, questo passava il convento. Il tempo lo dirà più avanti.
Tuttavia, alla cupezza di questo ricordo manca ancora qualcosa,
secondo me. Manca un elemento che per un bambino sensibile fa la
differenza: la paura.
Non so se avete mai visto la sigla della serie Ligabue (1977) con
Flavio Bucci. Musica del geniale Armando Trovajoli, fantastica per
quello sceneggiato, spaventosa, ossessiva, sbornia di terrore per un
bimbo che passa le giornate vestito da spadaccino romantico: a giorni
alterni Zorro e D’Artagnan.
https://www.youtube.com/watch?v=h6ddsFcUvRQ
E c’era qualcosa di ancora più tenebroso. Nel 1976 venne trasmesso in tv un altro sceneggiato thriller inquietante per un bambino. Era
‘Albert e l’uomo nero’ con musiche di un altro grande maestro delle
colonne sonore: Franco Micalizzi. Sentite un po’ che trama: il piccolo
Albert, nove anni, rimane improvvisamente solo di notte in una
spettrale villa del ravennate dove riceve la visita di un uomo vestito
di nero e a volto coperto. A seguire sinistri intrighi da far gelare i
polsi. Lo scoprirò dopo, leggendo qua e là online. Tutto si svolge
nella penombra e nella tensione delle splendide musiche di Micalizzi.
Non ricordo altro per fortuna, perché i miei devono avermi preso di
peso davanti allo schermo Grundig 20 pollici e messo a dormire vicino
alla mia lucina gialla con i pagliaccetti. Ero troppo piccolo e il
fotogramma è talmente sbiadito che resta solo la sensazione di ansia
tenebrosa, una grande macchia scura. Albert e l’uomo nero... Ho
brividi perenni.
https://www.youtube.com/watch?v=1VvvKa1xSrA
Non credo che oggi una serie così passerebbe in prima serata, come
allora, o forse sì. Di fatto, nei Settanta, questo e altri sceneggiati
erano parte del palinsesto di una comune esistenza. Se non ti ‘facevi
sotto’ dalla paura, se non sbattevi il mostro in prima pagina, se non
ingaggiavi il miglior musicista del genere, non eri della partita.
Come possiamo aver superato quei traumi (ammesso di esserci mai
riusciti) lo sanno solo Dio e il nostro abat jour colorato.
La premessa ve la dovevo non solo perché erano gli anni della tv
regina incontrastata del quotidiano, metronomo di abitudini e
certezze, focolare domestico, megafono di eventi sconvolgenti. Ve la
dovevo perché sto per parlarvi di un’altra pagina della storia
televisiva di quegli anni pesanti per la storie e le coscienze. Altri
fotogrammi, altra faccenda, stessa pressione crepuscolare.
Ma qui la cosa è un po’ diversa, perché ‘I Sopravvissuti’, di Terry
Nation (la mente dei Dalek di Dr Who), è una serie tornata
precipitosamente attuale. Anticipava i drammi di questi giorni: morti
in serie, pandemia, quarantene e il timore che il virus killer sia
stato diffuso per errore da un laboratorio cinese, proprio come
svelava la sigla della serie BBC1 (su grande composizione di Anthony
Isaac) prima trasmissione nel 1975. Emblematica e profetica la frase
di un protagonista del primo episodio (The Fourth horseman): “Il
governo cinese ha messo un limite alle notizie, ma girano voci di
milioni di morti lì”. Ne sappiamo qualcosa, o no?

Abby Grant durante la breve malattia


‘Survivors’ è un’opera molto interessante, che ho visto interamente a
41 anni di distanza. Trentotto episodi, non tutti trasmessi in Italia
nel 1979. Sulla Rai, non arrivò la terza serie, l’ultima. Però,
nell’era del tutto e subito, Youtube mi è venuta incontro,
permettendomi di capire cos’era quel lavoro prezioso, da principio
alla fine, o viceversa, cosa significava in quegli anni e oggi.
Raccontarmi dei fotogrammi che vagavano nel 'retrobottega' del mio
cervello.
Sono partito da quelle immagini appannate, rimesse in circolo dal
coronavirus. Volevo capire ad ogni costo quella serie, pure se,
qualche notte, lo confesso, ho vissuto la tensione della pandemia 2020
amplificata dalle vicende dei Sopravvissuti. Ed è stata dura. Ma è qui
che è emersa la magia di ‘Survivors’, per nulla scontato, né caricato
d’inutili additivi post apocalittici tipici di certi film.
Ricordavo poche scene: un uomo che rovistava in una casa tutta bianca,
due individui cercare cibo in un supermercato e un’auto che percorreva
un’anonima campagna inglese. Tutto qua. Troppo poco.
Infatti avevo un’idea sbagliata dei Sopravvissuti. Li percepivo come
fantascienza sfrenata, irreali, esclusivamente funzionali al
perentorio titolo e non il contrario. Invece c’erano sentimenti,
verità, bravi interpreti. C’erano efficaci sceneggiature, soprattutto
nella prima serie, che è impagabile per qualità, imprevedibilità e
quel ritmo lento, inconcepibile oggi, che però a me piace quindi, in
piena quarantena 2020, ci sono andato a nozze.
Ian McCulloch, omonimo del cantante dei mitici Echo & the Bunnymen
(altro idolo di fine anni Settanta) diventa subito un trascinatore.
Ottimo attore, perfetto nella parte dell’aitante Greg Preston, biondo
ingegnere che impersona la risposta pragmatica e istintiva dell’uomo
nella lotta per la sopravvivenza. E’ lui a dominare la scena nella
prima serie. Insieme con l’iconica Carolyn Seymour, che interpreta
Abby Grant, misteriosa, bella, calma, leader carismatica delle poche
anime in pena che, una dopo l’altra, si riuniscono per necessità nei
giorni della pandemia.
Ecco, la storia di Survivors narra di una malattia dalla virulenza
inaudita che cancella il 95 per cento del genere umano. In una decina
di giorni. E qui, per fortuna, non va come oggi nell’era del
coronavirus. Tutto ha origine da un’ampolla di vetro, contenente il
micidiale virus, che sfugge dalle mani di un ricercatore di un
laboratorio probabilmente cinese e si diffonde rapidamente a ogni
latitudine del globo. Solo un lampo, nella sigla. Non è importante, se
non per noi oggi, con il Covid 19, visti i dubbi piuttosto diffusi su
quanto successo a Wuhan.
https://www.youtube.com/watch?v=ael3kqBUHCE
In Inghilterra, non lontano da Londra, si svolge la vicenda del gruppo
di sopravvissuti che attraversa la malattia e prova a ripartire mentre
attorno salta tutto: elettricità, ordine, affetti.
Nel nuovo mondo non c’è niente di materiale, a parte la benzina e il
cibo che i ‘nostri’ portano via da distributori e supermercati vuoti
(e qui rivivo l’emozione della scena che ricordavo) o dalle case
abbandonate (altro fotogramma rimesso a fuoco nella mia Ram).

Lo scontro nel supermercato

Poi sono costretti ad imparare da capo a cacciare animali, tirare fuori il
buono dalla terra, produrre metano, dandosi un’organizzazione precisa,
che sembra funzionare, perché ognuno fa quello in cui riesce meglio.
Coltivano appezzamenti, non sempre adatti allo scopo, tra mille
traversie e incontri fortuiti che introducono elementi nuovi nella
comunità, situazioni in cui il singolo si confronta con l’aggregato.
E’ un interessante viaggio nell’antropologia pre e post catastrofe. Un
percorso di sopravvivenza, non un manuale. Cosa resta e cosa cambia
nella testa e nelle abitudini.
Non emerge il sentimento dell’amore, se non quello di Abby per il
figlio perduto che lei continuerà a cercare e forse incontrerà. Non
c’è miele. Non c’è sale. Anche le morti, che sopravvengono per varie
vicissitudini, perfino un’esecuzione capitale di un povero giovane con
lieve ritardo mentale (episodio ‘Law & Order’ che vi consiglio) che in
realtà è incolpevole dell’omicidio che gli viene contestato, sono
eventi ineluttabili come il tempo che passa. E’ il ‘risolutore’ Greg
Preston a schiacciare il grilletto. Dirà, come la metà più uno dei
compagni d’avventura, che la morte del giovane era la soluzione più
giusta per il progetto comunitario, mentre la coscienza di altri
griderà per pochi istanti al giustizialismo sommario e primitivo.
https://www.youtube.com/watch?v=TDQ9ozkdWcg&list=PLzNmbMdJifOBIEgg4P1jyOxT4QxXoqNB7&index=9
Sono proprio i bivi a costituire l’insidia maggiore per il piccolo
nucleo sociale. Autorità o autorevolezza? Democrazia o terrore?
Pionierismo o progresso? Ragione o sentimento?
Mi sono chiesto più volte, guardando i miei amici Sopravvissuti (già,
perché mi hanno accompagnato per mano nei 55 giorni di ‘clausura’),
cosa sarebbe di noi oggi, nel 2020, se davvero esplodesse una bomba
tanto potente. Probabilmente saremmo come loro: volitivi, immuni ai
ricordi, istintivi come lupi affamati nella giungla (‘Law of the
jungle’ e ‘Mad dog’ nella terza serie). O enigmatici come Greg Preston
che alla lunga offrirà un compendio di abilità da eroe cui non
corrisponde l’empatia di Charles Vaughan (interpretato da Danis Lill,
seconda e terza serie) il quale sogna di ripopolare il mondo e di
creare una confederazione tra i vari gruppi sparsi nel Regno Unito.
Vaughan ha il pallino della leadership che a tratti lo porta fuori
binario. E’ capace e pragmatico ma più umano di Preston, a volte
fallibile al limite del grottesco.
La figura che ne esce meglio (ma purtroppo uscirà nel vero senso della
parola dopo la prima serie, per contrasti con la produzione di Terence
Dudley) è quella dell’avvenente Abby Grant che bilancia la visione
muscolare se non proprio maschilista dell’intera produzione.

Abby e Greg nella location di Hampton Court

Memorabile il suo unico vero scontro con Greg Preston (‘A beginning’
ultimo episodio prima serie) per la permanenza o meno nella comunità
della povera Ruth, gravemente malata e forse contagiosa, ma si
salverà. Uomo e donna si affrontano dialetticamente, entrambi in
camicia di jeans. Toni alti, accuse, lui le stinge il polso, ma
soccombe al buonsenso veemente di lei.
L’altro viso d’angelo Jenny Richards (Lucy Fleming) che entra in tutti
gli episodi, non emerge mai come personaggio. E’ la donna che s’immola
per la prima nascita a sostegno del grande progetto per ridare la vita
al mondo. Procreazione e impulsi di libertà: Jenny sarà più spesso
lontana dal suo piccolo che con lui, perché nel mondo post
apocalittico non c’è tempo per affetti e smancerie. La sua storia
d’amore con Preston tiene in piedi la trama e a volte pesa, ma è
straordinario annotare che tra i due si materializzano in tutto al
massimo un paio di abbracci e null’altro. Così come per la malattia,
che s’intravede solo nei primi episodi, anche l’amore classico latita
ed è questo che mi ha sorpreso di più. Non in negativo. Anche la cura
dei bambini Lizzie e John, salvati e adottati (‘Gone to the angels’
quinto episodio) accompagna l’impresa del gruppo come una nota di
sottofondo. I due ragazzini sono parte integrante di un nuovo mondo
che assegna precise responsabilità. Assistono alle tragedie, respirano
la peste, cooperano, spariscono e ritornano senza patire le pene
dell’inferno che hanno appena affrontato. Il piccolo John ritroverà la
madre (‘Reunion’ terza serie) in un tormentato incontro che non
commuove più di tanto, confermando la tendenza della produzione a non
caricare a pallettoni l’arma delle emozioni.

Pet, Hubert e Charles nella seconda serie

Nessuno ingombra la scena. Vale per tutti i personaggi, tra i quali
spiccano il gallese Tom Price (Talfryn Thomas) e Hubert Goss (John
Abineri). Sono figure importanti, agli antipodi: falso e spietato il
primo, schietto all’eccesso ma incredibilmente affidabile il secondo.
Convincenti le prove dei due attori in momenti diversi della lunga
avventura.

La confessione di Tom Price in 'Law and order'


Da una serie all’altra cambia tanto a livello di scrittura. L’aspetto
frugale e socialista della ripartenza, nella prima serie, lascia poi
campo libero alla lotta animalesca per sopravvivere e prevalere con la
forza o altri espedienti. L’esaurimento totale di energie e carburante
ricaccia indietro i nostri protagonisti, sempre più isolati, mai
avventurieri, piuttosto vittime di avventure.
Nel mezzo c’è il doppio episodio ‘Lights of London’ (consigliato,
seconda serie) scritto dall’altro sceneggiatore Jack Ronder. Greg e
Charles raggiungono Londra per riportare nella loro comunità di
agricoltori e artigiani la dottoressa (di fatto) Ruth Anderson (Celia
Gregory). La donna era stata portata via con l’inganno da un uomo e
una donna le cui motivazioni emergeranno più avanti. Le capacità di
Ruth in ambito sanitario serviranno alla comunità superstite di
Londra, circa 500 persone, forse più, a salvare il salvabile. La
capitale è infestata da topi e cadaveri. Comandano un dottore e un
altro uomo di potere, che hanno in mente di portare tutti sull’isola
di White dove, secondo i più, la pandemia non avrebbe attecchito con
la stessa potenza distruttiva e ci sarebbe la possibilità di
ripopolare la specie umana. Anche questa si rivelerà un’utopia, frutto
di un’altra delle sinistre e autoritarie organizzazioni che i ‘nostri’
Survivors si troveranno ad affrontare sul piano dialettico, prima, e
poi con un mix vincente di forza e astuzia. Episodi interessanti,
anche questi, che avvengono quando il vecchio gruppo di Sopravvissuti
si è in parte disgregato tra un catastrofico incendio e l’eco mai
sopito della pandemia.
https://www.youtube.com/watch?v=ael3kqBUHCE&list=PLzNmbMdJifOBIEgg4P1jyOxT4QxXoqNB7&index=1
Forse per questo i primi episodi (che vi consiglio tutti) si fanno
preferire, ma anche quelli ambientati nella solenne location di
Hampton Court, in versione decadente. Ci si affeziona di più ai
personaggi, mentre in seguito saranno i risvolti materiali della
ripartenza, e le singole storie, a segnare il canovaccio, in
particolare la lotta per il potere, la ricerca di Greg Preston il
quale diventa un catalizzatore invisibile, perché pure lui sarà quasi
completamente fuori dalla terza serie, a parte ‘The last laugh’
scritto dallo stesso McCulloch (vi consiglio anche questo).
Con il passare del tempo i Sopravvissuti entrano ed escono di scena.
La sensazione è che ci sia poco da dire sul piano dei rapporti, sempre
più impersonali. La storia riprende slancio nel finale quando il
progetto di riattivare industrie idroelettriche, ferrovie e anche il
commercio mediante improbabili ‘paghero’ subisce continui smottamenti
e sembra vacillare, fino all’epilogo (‘Power’) carico di tensione
nello scontro tra la speranza di non disperdere il frutto dell’ingegno
umano e il desiderio di altri di formare una nuova generazione, quella
dei pionieri, in grado di spazzare via il peggio del vecchio mondo, le
divisioni e gli scontri per il potere politico. Far prevalere
l’istinto alla ragione.

Charles e Jenny felici in 'Power' epilogo della serie

Vinceranno il peso della storia e i buoni propositi. Vince l’energia
di una rincorsa affannosa che finisce perentoriamente all’ultimo
sprint. Vincerà il desiderio di riavvolgere il nastro della conoscenza
che alimenta la civiltà. E non era scontato per come si era messa in
itinere sull’asse Inghilterra, Scozia, Norvegia (da non perdere
l’episodio dell’arrivo in mongolfiera dell’imperturbabile Agnes
Carlsson (Sally Osborn) in ‘New World’ ultimo episodio seconda serie.
Sarà proprio la bionda norvegese a fiancheggiare Preston (colpito da
vaiolo, morto, e da lei sepolto) nella riorganizzazione di un sistema
sociale e amministrativo che somiglia molto a quello di un piccolo
Stato con tanto di nuovo governo.

Agnes, protagonista degli ultimi episodi

La benzina tornerà a essere oro e le
industrie idroelettriche riaccenderanno il motore del processo
produttivo. Un’impresa titanica per i ‘nostri’ eroi, non tutti
‘Sopravvissuti’ a differenza della civilizzazione che resiste nei
presupposti, nello sforzo collettivo, e, forse, questa è la mia
visione, nelle logiche speranze dello spettatore.
The end, fine della quarantena. Il bambino curioso e un po’ fifone che
è ancora in me, partito per intercettare eventuali affinità tra il
1975 della fantascienza e il 2020 della psicosi vera, ha trovato il
tempo di ricomporre quei frammenti d’infanzia. Tra passato e presente,
può partire la Fase 2.
(Maurizio Cavaliere)

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