Dal Cholera morbus al corona virus, nei secoli la risposta del Molise alle emergenze sanitarie

di Maurizio Cavaliere

Oggi è il corona virus, un tempo erano colera, morbo petecchiale, vaiolo, peste, febbri tifoidee. Cambiano i nomi, e a volte la portata, ma le malattie da emergenza sanitaria hanno sempre sconvolto la pace delle comunità e comportato una fitta rete di provvedimenti e comunicazioni a livello locale e generale.

Un esempio? Nel 1831 l’articolo 7 del regolamento sanitario interno stilava l’elenco dei medicinali di cui doveva essere provvista ogni farmacia del Regno delle due Sicilia per la cura del ‘Cholera morbus’. Oppure: il 21 agosto del 1849 in una lettera indirizzata all’Intendente di Molise dalla guardia civica di Oratino, Giuseppe Brumotti, si denunciava la presenza di trecento individui malati gravemente nel limitrofo comune di Pietracupa”. Si trattava probabilmente di una epidemia da tifo che aveva provocato diverse morti. Il Brumotti lamentava il disinteresse delle autorità di Pietracupa e sollecitava l’intervento di una commissione medica.
Tornando indietro, al 25 marzo del 1812, veniva autorizzata dal soprintendente generale di salute il rimborso delle spese sostenute dal comune di Termoli per il sostentamento dei ‘contumacisti indigenti’. In pratica, gli equipaggi delle navi per le quali veniva prescritto un periodo di contumacia a debita distanza dalla costa e che, quindi, non potevano sbarcare, avevano diritto al sostentamento necessario che gravava sui fondi dei comuni marittimi interessati. Le operazioni di controllo dei periodi di quarantena (42 giorni), contumacia e di soccorso agli equipaggi ‘contagiati’ erano affidate ai deputati di salute comunali. Tutto ciò, a seguito di un altro importante provvedimento: il decreto di Gioacchino Murat che dettava le norme relative al controllo sanitario e doganale al quale erano soggette le navi mercantili o da guerra che approdavano nei porti, 9 gennaio 1812.
Quanto materiale c’è per capire che le emergenze sanitarie hanno tutte la stessa matrice e conseguenze oltre modo allarmanti.
Mi sono imbattuto in questi documenti quasi per caso.
Tra i diversi testi sulla storia molisana, ben allineati nella biblioteca di mia madre, ho trovato infatti una pubblicazione interessante che valeva la pena spulciare, come un documento d’archivio perché di quello si tratta.
S’intitola Indagine sulla condizione sanitaria del Molise nell’800”. E’ il frutto del lavoro della III E del 1990, scuola media ‘Igino Petrone’ di Campobasso.
Al tempo, mia madre, docente in quella scuola, conduceva progetti e ricerche storiche con i suoi alunni. Uno di questi approfondimenti rivela oggi una serie di curiosità e spunti, una lettura dei momenti più significativi della condizione sanitaria del Molise nell’800, partendo dal periodo dell’occupazione francese agli anni successivi all’Unità d’Italia. In gran parte, il testo consente di studiare le emergenze e le epidemie che i nostri avi hanno dovuto affrontare, più o meno come noi oggi nell’era del corona virus.
I documenti vennero catalogati, fotocopiati e portati alla scuola per una mostra documentaria resa possibile dal grande impegno dei ragazzi e del personale dell’Archivio di Stato di Campobasso, al tempo diretto dalla dottoressa Renata De Benedittis.
Di grande interesse i testi del Fondo archivistico dell’Intendenza di Molise, periodo dal 1806-1860 e naturalmente quelli conservati nell’Archivio di Stato (fondato nel 1818).
Prima evidenza, parliamo del periodo di organizzazione legislativa del nuovo sistema amministrativo del primo ‘800, in cui vengono individuati con chiarezza i compiti e i settori d’intervento dello Stato.
La chiarezza delle funzioni di ciascun organo deputato a gestire il settore sanitario è un elemento che sembra in contrasto con l’eccessiva attività di comunicazione dei nostri giorni, a differenza del periodo studiato quando la comunicazione era in direzione univoca.
La ricerca d’Archivio parte dal 22 maggio 1807 quando arriva il Decreto di Giuseppe Bonaparte relativo alla inoculazione del vaccino antivaioloso. Il decreto istituisce un comitato centrale di vaccinazione con sede a Napoli. In ogni provincia è costituito un comitato provinciale ed è affidata all’intendente l’organizzazione necessaria “per propagare la vaccinazione”.
Nel 1810, ai sensi della circolare del ministro dell’Interno del 29 aprile 1809, si parla di Registri degli “Individui addetti ai vari rami dell’arte salutare” con riferimento ai circondari di Campobasso e Isernia.
Com’era quindi organizzato il sistema sanitario nel Regno delle due Sicilie, subito dopo la restaurazione del 1815? Ci viene in soccorso la Legge sulla pubblica salute che determinava gli organismi ai quali era affidato il servizio. E’ il 1819 quando, sia a Napoli sia a Palermo, risiedono un supremo magistrato e una soprintendenza generale, mentre nelle province il servizio sanitario è affidato alla direzione degli intendenti; a livello comunale, infine, il servizio marittimo viene svolto dalle deputazioni locali e quello interno dagli ufficiali comunali.
Altro elemento in evidenza nella ricerca, è il fatto che le epidemie, malattie endemiche e in generale l’ambito delle condizioni igienico-sanitarie, sempre estremamente carenti, minacciarono le comunità per tutto l’arco del secolo, accompagnando i molisani nel complicato cammino verso le successive tappe di progresso civile.
Per capire la posizione del Governo sulla questione vaccini, è utile citare una lettera del ministro dell’Interno all’Intendente di Molise nella quale si ribadisce la necessità di diffondere la pratica della vaccinazione antivaiolosa, sensibilizzando al problema i cittadini. Il ministro sottolinea che il rispetto delle norme sulla vaccinazione sarà considerato un requisito essenziale per accedere a cariche pubbliche ed onorificenze.
Curioso l’articolo III del Regolamento dei comitati provinciali di vaccinazione che prevede, tra l’altro, che si diano le istruzioni necessarie ai vescovi e ai parroci perché predichino l’utilità della vaccinazione e che le levatrici siano ammonite a non gettare discredito su tale pratica sanitaria, 3 agosto 1810. 
Il 7 maggio 1832 una Circolare dell’intendente ai sottointendenti, ai sindaci e alle commissioni sanitarie, richiama alla stretta osservanza di alcuni articoli di polizia urbana e rurale che dispongono misure utili a evitare il diffondersi del colera asiatico. Interessante anche l’opuscolo “Sui progressi della vaccinia nel Regione delle due Sicilie, diffuso nel 1846.
Si parla pure dei cordoni sanitari così attuali anche oggi. “Una complessa normativa assicura anche l’efficienza del servizio dei cosiddetti ‘cordoni sanitari’ – si legge negli ‘Appunti’ stilati dalla dottoressa Renata De Benedittis – i quali costituiscono una sorta di invisibile ma invalicabile barriera che, nei casi di epidemie, impedisce l’avvicinarsi alle coste di navi di qualsiasi provenienza e lo sbarco di merci e di uomini possibili portatori di contagio”.
Attenzione, perché i giudici militari di allora non erano per niente dolci di sale. Il decreto del 29 luglio 2013 sulle disposizioni penali per le contravvenzioni ai provvedimenti sanitari disponeva che fossero giudicate da una commissione militare e fossero punite con la pena di morte le contravvenzioni al cordone sanitario e alle contumacie, l’immissione di generi di contrabbando, la diserzione delle Guardie sanitarie, la falsificazione delle ‘bollette’ attestanti lo stato di salute degli equipaggi. Pena di morte e lavori forzati per i reati più gravi prevista anche dal Decreto del 18 agosto del 1815 e dal decreto del 5 agosto del 1831.
A proposito di cordoni, quarantene e contumacie, il 23 ottobre 1823 il giudice regio di Termoli scrive all’intendente, riferendo i risultati degli accertamenti sanitari effettuati sugli uomini degli equipaggi di due navi ancorate nelle acque di Petacciato.
A svolgere gli accertamenti è la deputazione sanitaria di Termoli a seguito della morte di alcuni uomini della bombarda ‘Immacolata Concezione’ e del brigantino ‘Madonna della Provvidenza’. I marinai ancora malati erano stati trasferiti a terra in locali lontani dall’abitato. Nella circostanza, sono i dottori Giuseppe Giordano e Michele Tisi ad aaccertare che molti marinai sono affetti da febbre ‘biliosa putrida’ non contagiosa, febbre che ha causato comunque alcune morti.

La ricerca offre inoltre lo spunto per capire la diffusione delle epidemie: dati tecnici e numerici, così per renderci conto di quella che era la sanità nell’800 nella provincia di Molise.
Da una Circolare del ministro degli Affari interni all’intendente del Molise si evince, per esempio, l’esigenza che ci sia un ospedale in ogni distretto della provincia. L’anno successivo, un Decreto di Ferdinando II di Borbone interviene disponendo l’istituzione di un ospedale nei capoluoghi dei tre distretti della provincia: Campobasso, Isernia e Larino.
La risposta al ministro arriva nel 1833 e dice: “Nella provincia non vi è alcuno ospedale in attività” e che in caso di bisogno, i poveri sono soccorsi nelle loro abitazioni. L’intendente aggiunge che, per quanto riguarda il distretto di Campobasso, si è dato incarico all’ingegnere provinciale di predisporre una parte del distrutto convento di Santa Maria delle Grazie (litografia a corredo di questo articolo, convento, poi ospedale civile di Campobasso, 1971, Nocera Editore), mentre negli altri due distretti si stanno cercando, tra mille difficoltà, i locali idonei.
La situazione migliorerà nelle seconda parte dell’800. Nel 1871 interviene lo Statuto organico dell’ospedale civile provinciale di Campobasso. All’articolo 2 si legge: “Lo scopo dell’opera pia è di accogliere e curare gli infermi poveri della provincia i quali siano affetti da malattie croniche… La somma direzione e l’amministrazione dell’istituto è affidata a un governo composto di un presidente e di quattro governatori che prestano gratuitamente l’opera loro”. Note e documenti certificano che a Campobasso, in detto periodo – come spiega nel libro la dottoressa De Benedittis: “funziona una struttura sanitaria che appare solida e ben organizzata e che viene guardata con orgoglio e con fiducia dai cittadini”.
Infine, un po’ di dati significativi. Al 1837, nel distretto di Campobasso su una popolazione di 165.315 unità, 330 risultano morte per colera; nel distretto di Isernia su una popolazione di 101.202 unità le vittime dell’epidemia sono 200; nel distretto di Larino i morti sono 164 a fronte di 87.803 unità.
Sono numeri di 183 anni fa in tempi difficili, ma quando non c’erano fake news e quando l’apparato sanitario statale poggiava su una rete gerarchicamente strutturata di pubblici funzionari.
Grazie a questa ricerca è possibile immaginare cosa pensassero i nostri avi in quel periodo. Le certezze, per tutto l’800, erano queste: tutte le decisioni relative alla salute pubblica facevano capo ai sottointendenti distrettuali e all’intendente provinciale; quest’ultimo era in diretto contatto con la soprintendenza generale di salute e con il supremo magistrato di sanità di Napoli. E tutta la normativa statale in materia, era finalizzata a un deciso intervento pubblico volto a debellare piaghe epidemiche terribili. Tre le malattie contagiose più temute: la peste, la febbre gialla e il colera asiatico. Debellate tali emergenze, negli anni sono comparsi altri virus che attraverso le vaccinazioni sono di volta in volta stati sconfitti.
Ci vorrà del tempo, come dicono gli esperti, per capire come sia nato e si sia diffuso oggi il coronavirus, quale sarà il vaccino che riporterà la sicurezza nelle nostre comunità, oggi, come nei secoli scorsi, costrette a non avere contatti e frequentazioni ravvicinate. Parleranno i documenti ufficiali, come sempre. Decreti, Circolari, Leggi in continuo divenire: tutto archiviato, ai tempi di internet, ma pur sempre archiviato.

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