30 anni fa usciva la canzone che mi ha cambiato la vita: Fools gold, The Stone Roses anno di grazia 1989

di Maurizio Cavaliere

Un profumo ha il potere di riattizzare il fuoco del passato, addensarne la magia. Una canzone può fare questo e può pure cambiarti la vita o per lo meno la sua prospettiva, colorarla, sospenderla, renderti invincibile.

Succede quando sei ragazzo, di solito nell'adolescenza, forse l'unico momento in cui il sogno sconfina nella realtà e ci sei dentro tutto, effetti collaterali compresi.


The Stone Roses nel 1989
Vi racconto di quando è successo a me, nei giorni di un autunno di cui ricordo i riflessi piacevoli di una specie di sole che stava sempre lì, in alto. Tutto il contrario di quei ricordi sempre forti però malinconici, per lo più familiari, di cui molti di noi, italiani, meridionali e ben cullati, potremmo morire.

Immaginateli, quei giorni. Ultimo anno delle superiori. Alla tv le immagini del muro di Berlino preso a picconate, la prima volta in cui noi dei primi anni Settanta ci siamo sentiti dentro l’amato/odiato libro di storia. Nell'aria un senso di cambiamento, di giustizia, che amplifica l'urgenza di un 17enne che vuole che Domani sia Oggi e viceversa.

Mai stato vicino alla politica, al massimo scrivevo qualche innocuo slogan comunista sui muri del bagno, a scuola, e solo perché lo facevano gli altri. Comunismo e muri... proprio quello che crollava in quei giorni e meno male). Ma quella di Berlino non era politica, era storia contemporanea pura, cosa diversa. Forse la percepivo un po' di più, di sicuro m'interessavo agli imminenti cambiamenti della cartina geografica europea. Oggi sarei capace di guardare Rai Storia 24 ore di fila. La storia è materia concreta, la politica, da sola, è torbida fiction: un cinepanettone. La vedo così, forse da allora.

Ma in quei giorni Rai Storia non c'era e io come tanti miei coetanei di Campobasso, sonnolenta ex città giardino, ero solo calcio e stese per il corso, con un bel po’ di musica nelle orecchie, quello sì.

Verso la fine del 1989 avviene il miracolo. A Campobasso, e suppongo nel resto d'Italia, cominciano a trasmettere programmi dal satellite. Che io ricordi era un solo canale a farlo. Trasmetteva con la pubblicità di un negozio di accessori (credo) per Tv, sito in via Monte Sabotino, che si leggeva, sempre, come il sottopancia di un servizio al Tg. Non ricordo il nome del canale ma ricordo che un giorno spuntò fuori e io posai gli occhi su Mtv, per la prima volta, forse era la top 40.

Ora, non voglio fare il nostalgico o il precursore. Detesto la storiella del ‘Noi che giocavamo a pallone nel cortile...’ eccetera, eccetera. Sono solo ricordi, perché l’infanzia e l’adolescenza nella maggior parte dei casi, sono meravigliose. Vale e sarà valido anche per i giovani di oggi. Per di più non farò ricerche per questo pezzo: voglio che esprima la genuina sensazione di quei giorni. E' solo che allora la tv, anche quella musicale, funzionava in un altro modo. C'era sempre la musica mainstream, ma quella di nicchia era un punto forte del palinsesto. Le produzioni indipendenti, o indie, curatissime pure nei videoclip, erano realmente tali, ciononostante riuscivano a imporsi pure dove oggi riescono (per fortuna) solo su internet, a meno che non consideriate indie (c’è chi lo fa, purtroppo) case propinate dalle radio commerciali italiane o altra robaccia anche straniera. L’indie purtroppo è morta con lo stucchevole dualismo tra Oasis e Blur creato ad arte dalla stampa britannica. Dalla sostanza alla fuffa è stata un attimo, con lo zampino decisivo delle grandi case discografiche: business puro. Quello è il punto di non ritorno, secondo me, quello in cui ha preso il largo il termine ‘britpop’ che non appartiene alla band di cui sto per parlarvi.

Per chi era dotato di maggiore orecchio e voglia di non fermarsi a ciò che radio e tv propinavano, ora come allora, c’era il modo di evadere. Nel 1989 c’era Video Music, c’era Stereodrome su RadioRai, ed Mtv trasmetteva 120 minutes, un vero paradiso di suoni e immagini per quelli come me che stavano aspettando esattamente quel momento: ‘What the world is waiting for’ canteranno i nostri paladini.

Cominciai a guardare quei video. Ne sentivo il profumo, quasi. Passano uno, due, tre brani, non so chi fossero tutte quelle band, ma mi piacevano. Così decido di accendere il video registratore perché avverto che qualcosa sta per succedere. Già, il mitico videorecorder. Superfluo dirvi che a quell’età un paio di filmetti spinti ti passano tra le mani. Tele Radio Campobasso, o Trc, trasmetteva un porno a mezzanotte del sabato e un mio amico si dilettava a registrarne qualche spezzone… Non era l’unico, assolutamente. A Campobasso scattava l’ora zero del piacere. Alcuni scappavano a casa subito dopo la tradizionale pizza con litrozzo di birra. Una tv regionale che passava dai tg ai porno come si passa dal caffè al bicchiere d’acqua. Allucinante segno dei tempi.

Ma ero solito usare il videoregistratore per altro: registrare i gol del mio idolo calcistico Miki Laudrup e la musica, soprattutto. E la musica, quando la senti e ti appartiene, crea dipendenza più di qualsiasi altra cosa, sesso compreso.

Non ricordo il momento preciso, so che riesco a registrare un video che avevo visto qualche giorno prima, ma solo negli ultimi secondi del pezzo, perdendone i riferimenti... disperatamente. Stavolta lo becco quasi tutto. C’è scritto: ‘Fools gold’ The Stone Roses, ma soprattutto ci sono quattro soggetti che lo animano, che camminano sui sassi e sulla sabbia (foto qui sotto), che ammiccano, giocano, ballonzolano incuranti e indolenti, che sono incredibilmente fuori contesto per quella Campobasso ma così familiari per me, più affascinanti di qualsiasi cosa abbia visto in precedenza.
                                                             
E’ una folgorazione. Letteralmente. Pare che il tubo catodico della tv entri di colpo nel mio cervello per trasmettere in  loop psichedelico quelle immagini e quei suoni. Il brano, ma lo scoprirò dopo, era appena uscito solo come singolo. E’ fuori da un lp, eponimo, che la band ha pubblicato da pochi mesi, lo stesso disco che oggi alcuni celebri critici e musicofili considerato il miglior album rock d’esordio di sempre.

Cosa c’era di così potente in quelle immagini sonore? Beh, innanzitutto il ritmo dance combinato su uno shuffle che accendeva la sezione ritmica ispirata al presente di allora (Run Dmc) e al passato di James Brown, ma rimescolata in maniera trascinante, mentre la chitarra wah wah andava a nozze con i sussurri onirici del frontman Ian Brown. Una tensione costante e la fusione di generi diversi che pulsa di piacere estetico oltre che armonioso. Mai sentito un funky rock così sciolto che abbraccia la musica house con tanta eccitazione.

Tutti ingredienti che masticavo bene, dai Beastie Boys agli Inner City, da Hendrix agli Smiths, al già citato James Brown, tutto quello che ascoltavo allora, ma la ricetta degli Stone Roses era diversa, imprevista, fuori dal tempo oserei dire.

L'impatto di quel pezzo ha pochi eguali nella storia del rock. Il fatto di essere così avanti con i tempi non aiuterà gli Stone Roses, che resteranno nel tempo una creatura vergine, mai sporcata dalle logiche commerciali, a parte la reunion di alcuni anni fa, naturalmente. Saranno gli Oasis, ben 5 anni dopo, ma con un sound datato, a sfruttarne la scia. Gli Oasis venderanno milioni di dischi e sfonderanno ovunque, ma resteranno la pallida copia dell'originale (Gallagher junior non è che il rumoroso clone di Ian Brown), rovinando di fatto la purezza e la spontaneità di un vero fenomeno artistico.

Sono decine e decine le band che hanno un debito verso le 'Rose di Pietra'. La storia del rock le metterà tutte in fila dietro di loro: Charlatans, Radiohead, Kasabian, Arctic Monkeys per citarne alcune, non saranno mai alla loro altezza.

Gli Stone Roses del 1989 sono un dono di Dio. Avanguardia pura. Troppo per non essere travolti dentro e fuori.

Dentro, in effetti, comincio a sentirmi tremendamente sicuro di me. Fuori li imito, non ancora nel modo di apparire, per un annetto avrò ancora i capelli a spazzola, ma certamente nel modo di guardare la realtà e ballare. Da mezzo paninaro poco convinto quale probabilmente ero cambio definitivamente registro. Nel video di Fools Gold vedo insomma quello che sapevo di essere ma che, per la sfortuna di non essere nato a Manchester e dintorni, non potevo essere. Frangette mosse, occhiate furtive, jeans flared rivisitati, scarpe qualsiasi, t-shirt evocative, camice psichedeliche e pure un discreto slancio verso il gentil sesso. Un muro che si sgretola, l'orizzonte che si apre. Tutto parte da lì.

Ricordo di aver ballato diverse volte davanti allo specchio del salone, mentre a casa non c'era nessuno. In cucina la tv a palla con Fools Gold e la mia testa che pende di qua e di là al ritmo sfrenato di Reni, il batterista con il cappello da pescatore infilato fino agli occhi socchiusi, anche qui l'originale, ovviamente.
Tutto è perfetto. Io li imito, ma in realtà divento me stesso. Viene fuori il ribelle rock che beve al massimo una birra a settimana e non fuma, con quel popò di roba nelle orecchie e negli occhi non ho bisogno di additivi. Si cementa pure la voglia di ricercare, di andare dentro. Da quel momento amerò gli artisti totali, anche i meno fortunati, quelli che spesso precorrono i tempi e tra riferimenti di film, pittori e scrittori, ti indicano pure la strada da seguire.

Una filosofia di vita dietro una semplice canzone? Esageriamo o forse no. Ma oggi, a trent’anni esatti dall’uscita di Fools Gold/What the world is waiting for (era il 13 novembre) sono felice di tributare a Ian Brown, John Squire, Mani e Reni questo mio ricordo, perché non c'è niente di più pulito da sbandierare del sogno intimo di un adolescente o di un ventenne (in foto io nella prima era Stone Roses).

E' il mio volo psichedelico, non c'è nessun altro con me, a parte il mio compagno di classe Domenico che pure lui ha avuto la visione nel 1989, sullo stesso canale: il video di Higher Ground dei Red Hot Chili Peppers, per quanto mi riguarda una delle migliori cover mai riuscite. Restammo scioccati, entrambi: pionieri a Campobasso.

La traiettoria mi porterà in pochi anni a due passi da loro, i grandi Stone Roses, dai Nirvana (il loro equivalente, ma più fortunato commercialmente, negli States) da John Lydon, da Pj Harvey, Sonic Youth, Suede e altri. Li vedrò implodere pure i miei idoli, nel 1996, assistendo a Reading al concerto che, per demeriti propri e adii precedenti, ne decreterà la morte. Una serata che rimarrà alla storia per le stecche di Ian Brown, e per essere stata l'ultima della seconda era, quella dell'altrettanto bello, ma non epocale, Second Coming. Ero lì con loro al canto del cigno, non poteva andare diversamente. 
A Reading nel 1996 poco
prima del discusso concerto
che decreta la fine della band

Non sarò mai deluso. Gli devo tanto. Hanno definito un’intera generazione musicale, sono parte di quello che sono oggi. 'Dis-moi ce que tu manges, je te dirai ce que tu es' diceva Anthelme Brillat-Savarin in Physiologie du Gout, ou Meditations de Gastronomie Transcendante, 1826: siamo quello che mangiamo. Beh, per me è altrettanto calzante il detto: "You are what you listen to", siamo la musica che ascoltiamo. Ricordiamolo, sempre. Qualche adolescente della dormiente provincia italiana sarà lì con le orecchie tese, pronto a captare il segnale giusto.

the song the video the band... 



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